E L’ORA NON OSCURA

VENTO FILA

FESTA ALLA STAZIONE

GIOVANI COME TE

SERA LONTANA

ANSIA DI GIOVENTU’

QUARESIMA ‘48

L’UOMO

INDIETRO

E L’ORA NON OSCURA

Io non bramo una sera

nel vivaio delle stradicciuole

che porti una fanciulla,

e non piango depresso

la solitudine del riquadro

che si vede rigato d’alberi,

dove lunghe processioni

e variopinte confraternite

approdano con l’incubo

delle campane.

Or sono i tetti ispessiti di neve

e i monti nel fazzoletto di mamma,

e capre nelle stalle

attingono balle di fieno,

e passi s’ingolfano

nell’eterno mattino

e l’ora non oscura.


1943

Su

VENTO FILA

A me questa notte

non darà pace:

sono stato scontroso con gli uomini,

sono giù di morale,

il cuore mulinato da rimorsi.

La lampada spesso si smorza.

Fiocca nei vicoli sugli stracci,

la campagna sola.

Vento fila nei baratri

delle lunghe stradette.

Giù nella Rabata,

chiuse le stentate

porte dei sottani,

e non verranno.

Non verranno i compagni

sotto alla finestra

a suonarmi la canzone di rampogna

questa notte

violenta di Carnevale.

Tricarico, febbraio 1944

Su

FESTA ALLA STAZIONE

Voci rauche, al sommo dell’estate,

e cortei con stendardi

dei vicini borghi.

Così i prati e così

variopinte le donne.

C’è la trombetta foriera di sussulto

battono i tacchi la terra

e le anime pie son ebbre

e il treno rugge

la gran fiera borbotta

di ragli abbrividenti

le farfalle fan stormo

sull’erbe gialle,

è lungo nel fiume

il lamento del rospo.

Allo scalo Grassano – Garaguso – Tricarico

14 maggio 1944

Su

GIOVANI COME TE

Quanti ne fissi negli occhi

superbi della strada, erranti

giovani come te.

Non hanno in ogni tasca

che mozziconi neri

di sigarette raccattate.

Non sanno che sperdersi

davanti alle lucide vetrine

alle dicende dei bar

ai tram in rapida corsa

alla pubblicità

padrona delle piazze.

Tanto perché il tempo si ammazzi

cantano una qualsiasi canzone,

in cui si chiamano fuorviati, si dicono

amanti del bassifondi

e si ripagano di comprensione.

Una canzone è per covare insano amore

contro le ragazze cioccolato

che sono un po’ le stelle sempre vive

che sono la speranza

d’una vita sorpresa in un sorriso.

E quanti, ma quanti

vorrebbero la luna nel pozzo

una loro strada sicura

che non si rompa tuttora nei bivi.

Quando compiono un gesto il solo gesto

son lì coi mietitori

addormentati ai monumenti

che aspettano la mano sulla spalla

del datore di lavoro.

Sono coi facchini di porto

contenti della faccia sporca

e le braccia penzoloni

dopo che il peso è rovesciato.

Son sprofondati talvolta in salotti

a far orgia di fumo e d’esistenzialismo

giovani malati come te di niente.

Spiriti pronti a tutte le chiamate

angeli maledetti

coscritti e vagabondi,

compagni dei cani randagi,

la nostra è la più sporca bandiera

la nostra giovinezza è

il più crudo dei tormenti.

Or quando la terra accaldata

ci mette addosso la smania del fuoco

nei lunghi meriggi d’estate,

è tempo di crucciarsi

di dir di sì all’Uomo che saremo

e che ci aspetta

alla Cantonata

con falce e libro in mano!

Napoli, giugno 1946

Su

SERA LONTANA

Batte già il mulo il ferro sopra il ciotolo

mentre si assestano i guanciali

nelle bisaccie. Si parte così

nel Sud per le campagne la mattina,

per la stazione rossa sull’arena

del fiume, ogni anno mi parto anch’io.

Io non so se posso per il mondo

tenere il pugno chiuso nell’attesa

di sgranarlo nel gioco della morra,

di tracannare oltre il desiderio

e sentire la lama del coltello

più calda della fetta rovesciata

sul tavolo a bocconi dei compagni.

Di certo non potrò sentire i canti

le nenie della mamma e le assonnate

tiritere con zampogna e tamburino.

E…La stazione non e già montagna.

Tu non risali sull’imbrunire

con frutti acerbi, paglia e fiasco vuoto

non rivedi le quattro luci a segno

di tutto il lungo borgo addormentato.

Han perduto sapore, spaesato

le tue parole. La tua terra, cara

terra, che lì questa notte respira

con grilli ridestati e le stelle,

passa qui per un inutile inferno.

Tricarico, settembre 1946

Su

QUARESIMA ’48

Quaremma, la vedova pazza

era la pupa col vecchio grembiule

volteggiava al turbine di febbraio

penzoloni da una fune sulla strada.

Bersagli di terribili fanciulli

periti nelle gare a sassaiola:

sfogavano l’ira dei padri neri

per tutte le piogge mancate

e i grani venivano su magri.

Coperto d’uno dei nostri mantelli

anche il cielo era lontano da noi

e avrei voluto vedere

quale parte recitava.

Dietro il recinto dei monti

i cavalloni squarciavano nitriti

in faccia sul mar Ionio

e pure il sole ci cacciava agli occhi

un’ombra vacillante di candela.

Intanto non puoi chiudere la bocca

ai divini germogli della terra.

Fuori il vento che frana sulle porte

sta a suonare la marcia del ribelle,

ma i mandorli sbocciati

picchettano i seminati,

i cavalieri bianchi della morte.

11 febbraio 1948

Su

L’UOMO

L’uomo che vide suo padre calzare

gli uomini e farli camminare

imparò da quell’arte umile e felice

la meraviglia di servire l’uomo.

L’uomo che crebbe nell’esule villaggio

imparò il coraggio di farsi riconoscere

e di crescere non lontano dai potenti della terra.

L’uomo che seppe la guerra e le lotte degli uomini

imparò dal fascino della notte

il chiarore del giorno.

Quell’uomo muore. Attorno attorno

alla ceppaia gigantesca che è

agili frullano i vivai che piantò nel mondo.

Ogni uomo che dà agli uomini amore profondo

e il pane e le scarpe e le case e le macchine

può dire chi era Stalin e la ragione del mondo.

Portici, 9 marzo 1953

Su

ANSIA DI GIOVENTU’

Oscurarono spessi nembi al tramonto

l’azzurro del cielo evanescente:

notte.

Dal folgorio del sole

rosso

dette la terra l’ultimo suo fremito.

Sotto alle tegole il passero e il rondone

un riparo

frugavano per l’imminente pioggia

l’ali sbattendo

ferendosi col becco.

L’animo grave

scandaglia un angolo nel buio

per ritrovarvi

pace e riposo.

Dormivegliando poi

odo il ronzio degli uccelli ancora

e non un’eco di pioggia lontana

e aspetto il giorno.

 

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