La nascita.
Dalla forma del ventre si cercava di capire il sesso del nascituro. Ventre appuntito: femminuccia; ventre piatto: maschietto (Panza pzzut, dallu fus; panza chiatt, dalla zapp). Credibilità davano anche al chicco di grano buttato nella strada, prevedendo il sesso dal passaggio dun uomo o duna donna. E bisognava esaudire ogni desiderio della donna gravida se si voleva che il bambino non fosse macchiato da qualche voglia.
Al primo figlio veniva dato il nome del nonno paterno, alla prima figlia quello della nonna paterna; al secondo maschietto, il nome del nonno materno, alla seconda femminuccia, quello della nonna materna; agli altri figli, a cominciare dal quinto, i nomi dei fratelli e delle sorelle dei genitori. Molte volte venivano scelti i nomi dei Santi del giorno, ma solo quelli venerati dalla comunità grassanese: SantAntonio, San Rocco, San Michele, San Pietro, San Vito SantInnocenzo, San Giuseppe, San Francesco, Santa Lucia, SantAnna, Madonna del Carmine.
Era molto importante che la mamma non lasciasse mai, di sera, i pannolini stesi fuori, perché si pensava che venissero toccati dagli spiriti "i mmalombr", i quali erano sempre causa di malattie per i più piccoli.
Alla madrina veniva concesso lonore di tagliare, per la prima volta, le unghie del figlioccio, facendogli tenere in mano delle monetine come segno di buon augurio.
Il più delle volte, le vecchiette, per non gravare sul modestissimo bilancio dei figli, mettevano da parte la somma occorrente per le spese funerarie "a "prucatur" in un cassone, nel quale veniva ben custodito il vestito indossato la domenica successiva alle nozze, allorquando, accompagnate dai propri congiunti, si recavano alla Chiesa Madre, dopo aver trascorso la prima settimana in casa "a summan da virgugnanz". Questa veniva così chiamata perché la sposa, per il matrimonio consumato, si vergognava duscire e restava chiusa nella casa dei suoceri, per attendere alle faccende domestiche. Rientrava nella propria abitazione, accompagnate dallo sposo, a notte piuttosto inoltrata, per non farsi vedere e notare da nessuno.
Il vestito "u second abbit" i famigliari lavrebbero indossato alla diretta proprietaria il giorno della sua morte.
Se a morire era un uomo, le donne, dal giorno della morte del marito fino a quello del loro decesso, vestivano di nero e, per alcuni mesi, non uscivano di casa, demandando tutte le incombenze famigliari al figlio o alla figlia maggiorenne.
Qualora fosse stata colpita dalla morte la moglie, il marito, in abito di fustagno o di vigogna, restava in casa con la barba non rasa, per ricevere le visite di condoglianze, che duravano otto giorni.
Per almeno un anno, era usanza portare, oltre alla cravatta nera, una fascia listata a lutto, i famigliari provvedevano al pranzo che, il più delle volte, essendo ricco e vario non si intonava alla circostanza.
Era usanza lasciare la sera prima della prima domenica di primavera, un carciofo o un uovo, dopo averne separato il bianco dal rosso, in un bicchiere, sul davanzale della finestra per avere, la mattina, allalba, il responso giusto.
Carciofo aperto: buon augurio; carciofo chiuso: cattivo auspicio.
Albume iridato: matrimonio prossimo; albume non iridato: matrimonio lontano.
La vigilia di San Giovanni, invece, di sera, prima di andare a letto, le ragazze usavano secernere della farina sul tavolo "u tavlir", adibito per la panificazione per avere, la mattina, un responso molto importante per loro: apprendere, dalle forme e dalle impronte lasciate sulla farina, la professione del loro futuro sposo. Loperazione, perché non potessero vedere nulla, veniva compiuta con il setaccio dietro la schiena. Se la forma fosse stata di una sega, la giovane avrebbe sposato un falegname; se dun martello, un fabbro; se di un ago, un sarto; se duna cazzuola, un muratore; se di orme di animali, un contadino o un pastore.
Il più delle volte la farina non rappresentava nessuna di queste forme, ma la fantasia delle ragazze era così fervida da sbizzarrirsi fino a tal punto che una certa interpretazione ne veniva fuori per appoggiare il loro desiderio di trovar marito.
I contadini, contrari ai concetti e ai ragionamenti, abituati a concretizzare tutto, facevano largo uso dei soprannomi, per riconoscere fra loro le varie famiglie di Grassano.
Il soprannome, il più delle volte, individuava caratteri peculiari di una persona, in modo da renderla inconfondibile. Ognuno era indicato con il proprio soprannome, ciò avveniva soprattutto in casi di omonimia o per indicare il mestiere, il paese dorigine, il difetto fisico, psichico e morale o manie personali.
Indicare una famiglia con il cognome aveva qualcosa di artefatto, era un segno particolare di distinzione dal popolo e dalla cultura.
Ancora oggi, però, i soprannomi, sempre meno utilizzati, conservano la loro bellezza, curiosità, stravaganza e, francamente, in alcuni casi, comicità. Ne ricordiamo alcuni:
Mangiacarvun ( mangiacarboni )
Sccangafich ( rompitori di rami di fico )
Raliulà ( scanzonato )
Ufauz ( il falso )
Quarraquar ( chiacchierone )
Cap-dlup ( capodilupo )
Rzztedd ( riccia )
Mnghil ( Domenicuccio )
U vavus ( bavoso )
Zamparidd ( moscerino)
Pzzntud ( piccolo pezzente )
Zanghel ( argilla appiccicosa )
Dntuzz ( dentino )
U muccus ( moccioso )
Pisafav ( trebbiafave )
Rplicch ( pisello )